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Fermo&Mosso/Spazi corpi tempi Stampa E-mail

begnoni_per_sito.jpg Fuoridentro /incursioni fotografiche tra esterni e interni
videoproiezione con immagini di Renato Begnoni, Patrizia Di Siro, Marco Natale, Marco Saroldi
a cura di Ferruccio Giromini, Stella Lombardo e Cristina Piccardo
testo critico di Ferruccio Giromini 
Musei di Nervi, Raccolte Frugone, Villa Grimaldi Fassio, Via Capolungo 9, Genova Nervi
7 Novembre 2009/10 Gennaio 2010
 

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 Renato Begnoni

patrizia_di_siro_la_casa_del_silenzio_7_-_the_house_of_silence_7_1997.jpgpatrizia_di_siro_la_casa_del_silenzio_14_-_the_house_of_silence_14_1997.jpgpatrizia_di_siro_la_casa_del_silenzio_17_-_the_house_of_silence_17_1997.jpg
 Patrizia Di Siro

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 Marco Natale

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 Marco Saroldi 

 

 

VEDO CRUDO E VEDO COTTO 

 

Può sembrare banale ricordare ancora una volta come il dipingere e il fotografare non siano che effetti voluti dell’esercizio dello sguardo: effetti fortissimamente voluti, tanto da volerli affrancare dal flusso continuo e inavvertito di quell’esercizio naturale e da volerli fissare per sempre, o comunque a lungo, per riviverli in proprio e per condividerli con sguardi altrui. Un po’ come passare dall’inconsapevolezza alla consapevolezza. Si potrebbe dire, anche, transitare dal naturale al culturale. O persino, ricordando la felice definizione dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, dal crudo al cotto: intendendo qui che normalmente vediamo crudo, ma le scelte di sguardo artistico ci fanno vedere (o ri-vedere) immagini invece cotte – cucinate da coloro che si dilettano nel nutrire gli innati appetiti estetici dell’essere umano. Interessante è allora degustare la percezione dello spazio attraverso occhi altrui, occhi che sanno cuocere bene quanto vedono. Sì, perché anche la percezione dello spazio (non meno di quella del tempo) è individuale: per gli spazi aperti così come per quelli chiusi. E, a volte, di quelli aperti come fossero chiusi e di quelli chiusi come fossero aperti. Nella cucina dell’occhio – il che significa, anche, nella cucina della mente – per fortuna molte ricette sono possibili. Cercando di accostare i tradizionali generi pittorici a possibili generi fotografici, prima o poi qui si doveva arrivare. Dopo ampi paesaggi naturali e dopo ravvicinati ritratti umani, poteva ben essere il momento di guardare a spazi limitati, al confine tra natura e cultura, come si diceva, tra un fuori e un dentro che talvolta non hanno confini precisi, che si confrontano l’uno con l’altro anche confondendosi e trasfondendosi l’uno nell’altro. Guardarsi attorno non significa solo registrare quanto si vede, ma bensì reinventare, trasfigurare, ridisegnare e persino, perché no?, serenamente tradire. Tradire con amore, per riscoprirne un gusto inedito, fin lì nascosto, potenziale ma ancora inespresso. Alta cucina visiva, diciamo pure per concludere infine il gioco con la stessa sapida metafora.

 

 

Si parlava di esempi. Tra i vari possibili, in questa occasione ne abbiamo scelti quattro: quattro fotografi italiani, di diverse provenienze geografiche e appartenenze anagrafiche, per un discorso complessivo al quale ognuno si adatta in qualità di voce personale e nell'occasione complementare agli altri. E i loro rispettivi “fuori” e “dentro” si dimostrano in grado di riservarci diverse sorprese.

 

Si può cominciare con il fotografo di professione e di passione Marco Saroldi (Torino 1957), che girando il mondo, tra le città nostre e quelle più lontane di altri continenti, tra l’altro sembra attratto in modi particolari dalle ombre. Ombre spesso spesse: fonde, nere, buie, che irrompono dilagando trasversali, inseguendo qualche loro idea di regolarità. Quando le trova e le registra, Saroldi le affronta con elegante impeto, quasi trasformandole in fenditure sagomate che si aprono verso altre immense dimensioni. Si attua così un vero e proprio sfondamento dello spazio, che non sta più contenuto nelle tridimensionalità sue abituali (pur costrette e simulate nelle bidimensionalità della stampa o dello schermo che le accoglie), ma invece si estroflette e si espande in una quarta estensione che non è il tempo, stavolta, ma un ulteriore spazio imprevisto, misterioso, custode severo di promesse inespresse. Quanto vediamo in queste sue immagini, pertanto, non si esaurisce lì, sulla loro superficie, ma è foriero d’altro: oltre.

 

La visione di Marco Natale (Napoli 1975) intende presentarsi invece subito più “artistica”, ci si passi il termine. Quelle sospese “periferie dell’anima” (la definizione è sua) sono scorci cittadini che risultano notturni anche quando sarebbero diurni. Avvolti da nebulosità imbrunite, noi attoniti astanti ci lasciamo prendere da una leggera vertigine. Il dominio dello spazio circostante ci sfugge dalle mani, ci si scioglie negli occhi. I segni di pietra della città diventano i sogni di fumo della civiltà. Ne dice Natale stesso: “Esistono strade che attraversiamo, esistono strade che ci attraversano. Esistono crocevia che incrociamo, esistono incroci che ci tagliano nel mezzo del ventre per proseguire dritti dietro la schiena”. È esattamente il fuori che ci entra dentro, come volevasi dimostrare. E lui aggiunge, lirico, a conferma: “Siamo noi la strada marginale, anche solo per un momento o per un chilometro appena, itinerario simbiotico tra l’asfalto fisso nel tempo e le curve a gomito dell’intestino”.

 

Un differente registro poetico è quello dell’internazionamente celebrato Renato Begnoni (Villafranca di Verona 1956), rigoroso sperimentatore del linguaggio fotografico e cantore elegiaco di emozioni pure. Nelle sue immagini silenti – che stranamente viene da definire anche sempre “grandi”, a prescindere dalle dimensioni reali in cui si presentano – il vuoto si gonfia di contenuto. I pochissimi esterni stanno, frontali, quasi piatti, deprivati di qualsiasi profondità. Viceversa i trionfali interni, scatole visitate dalla luce come uno Spirito Santo che avanzi in punta di piedi, accolgono figure diafane, presenze all’apparenza incongrue ma sicuramente portatrici di senso, anzi senz’altro di sentimento, e dilatano lentamente le loro assenze fino a farci avvertire le rispettive impalpabili densità dell’aria, spalancandoci i loro odori di chiuso. La sospensione fuori dal tempo e fuori dallo spazio diviene un’invincibile espansione dello spazio e del tempo. Vi si gioca una meditata partita dialettica tra l’esteriore e l’interiore. E un’esperienza quasi metafisica suggerisce e induce nuove sensazioni invece quasi fisiche.

 

Una possibile conclusione del viaggio circolare tra esterno e interno la suggerisce lo sguardo, ora delicatamente femminile, di Patrizia Di Siro (Milano 1953): dopo le evoluzioni in cerca di nuove spazialità, una meditata involuzione ripiegata nell’intimo. I propri spazi casalinghi, osservati con distacco eppure affettuoso, emergono da oscurità per una volta non aliene, non indecifrabili, non minacciose, in definitiva non oscure realmente, perché familiari, comodamente confidenti. E tuttavia lo sguardo ravvicinato provoca uno smarrimento di prospettiva. E tuttavia lo sguardo sgranato mostra ogni oggetto sotto una luce (una scomposizione della luce) nuova. E tuttavia lo sguardo sfocato mette purtuttavia a fuoco qualcosa. Sfioramenti d’affezione. La casa come utero tiepido; l’atmosfera liquefatta in sospensione amniotica. Quello sguardo vago di feto raggomitolato in se stesso affianca barlumi di sorpresa a relax prolungati, distesi, forse appena appena sorridenti. Qualcosa suggerisce le parole: “pausa di riflessione”. Qualcos’altro allinea altre parole ambigue: “La cosa più impressionante era il silenzio”. Fuori, o dentro?

 

                                                                                                                         Ferruccio Giromini 

 

 

 
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